Connessione Natura

Connessione Natura

Connessione Natura

Ho sempre amato stare sopra le nuvole. No, non parlo del volo – non proprio un’innata predisposizione degli esseri umani – bensì di quell’unica, naturale, possibilità che abbiamo per vivere quella speciale trama ancestrale di sensazioni eteree: guadagnare con le nostre gambe, e forze, quell’intima comprensione totale dell’umano nell’esistenza. Fatico a tenere il conto delle volte. Eppure, in una sequenza senz’ordine né gerarchia, le ricordo tutte. Nuvole di tutte le forme, cromie e dimensioni. Talvolta viaggiavano davvero veloci. In altri momenti, invece, sembravano immobili; statiche, afferrate a un evanescente paesaggio terrestre in apparenza immutabile e al contempo connesso a una volta affrescata da mille colori e fonte di sconfinata immaginazione.

Amavo, e amo quegli scenari. Bramavo, e desidero quella solitaria connessione col tutto. La memoria mi riporta a quelle peculiari giornate friulane tardo autunnali. Qui, dove la pianura bacia senza esitazione le Alpi Orientali, fra l’autunno e l’inverno è consuetudine – sempre più marcata a causa dei cambiamenti climatici – ritrovarsi immersi in giornate caratterizzate dall’alta pressione atmosferica, con spiccati fenomeni di inversione termica. Non è raro esser costretti per giorni, se non per settimane, ad assumere ruoli di comparse in un lungometraggio in bianco e nero o, per meglio dire, in tonalità di grigi; avvolti in un paesaggio sfocato, sbiadito e bidimensionale. La nebbia, fitta, amplifica lo scorrere ineluttabile di una quotidianità umana già offuscata dallo scivolare frenetico di vite al limite della percezione della realtà. La pioggia, tenue e all’apparenza invisibile, ci illude soltanto della sua assenza, ma ci condanna ugualmente a ritrovarci fradici a fine giornata. Frenesia, illusione, indifferenza. Frenesia; illusione; indifferenza. Comparse inconsapevoli di una sceneggiatura indefinita e senza trama. Mi domandavo per l’ennesima volta, il primo mattino di una di quelle scialbe giornate, se fossimo davvero certi di vivere con coscienza ciò che ci circondava. Essere protagonisti del nostro tempo; parte del pianeta che ci ospitava.

Durante quei giorni affiorava ancor più prorompente l’esigenza di colori, suoni, immagini e calore che percepivo necessaria dentro di me. Desiderio di tridimensionalità, di sensazioni, di tempo, di connessione. Non ero obbligato a restare in quella foschia. L’inversione termica offre sempre una via di uscita. Lassù in alto, oltre le nuvole, benché non sia chiaro precisamente a che punto, si incontra sempre il cielo e la luce del Sole.

Non di rado era mia abitudine programmare un itinerario ben definito, per trascorrere più di un giorno a quote elevate. In alto a sufficienza per respirare la libertà della luce; per afferrare lo scorrere della natura. Le Alpi friulane, a tale scopo, offrono scenari ineguagliabili nei periodi vessati dagli intensi fenomeni di inversione termica. L’orografia di quest’area geografica, infatti, non oppone resistenza all’avanzata delle inconsistenti maree di nuvole che ammantano gli strati più bassi e umidi dell’atmosfera. Dalla costa alle valli interne più settentrionali della Regione non vi è scampo: soltanto le cime dei gruppi montuosi più elevati hanno il potere di emergere e assaporare l’energia del Sole.

In quelle occasioni utilizzavo sempre la mia tenda per effettuare il bivacco alpinistico dove trascorrere le notti, e poco altro come equipaggiamento. D’altronde, la mancanza di precipitazioni non richiedeva neppure particolari attrezzature invernali: la neve è diventata un privilegio per pochi negli ultimi anni. Durante il viaggio in auto verso la destinazione di partenza la pioggia sottile confondeva costantemente la visuale attraverso il parabrezza. Al paesaggio cupo, già soggiogato dalla nebbia, e privo di prospettiva, si aggiungeva il rumore di sottofondo della circostante impazienza umana dell’ordinario. Guardandomi attorno, mi chiedevo di continuo dove fossero finiti i nostri primordiali ritmi naturali. Il nostro autentico legame col tempo, e con la natura.

Raggiungere la meta di partenza, alle pendici dei rilievi, significava trovarsi nell’anticamera dell’armonia. La pioggia non si arrestava, ed era ancora presto per pensare alla luce, ma il risveglio dei sensi era il presagio della felicità. Il freddo, amplificato dall’elevata concentrazione di vapore acqueo nell’aria, pungeva la pelle del viso. Al contempo, però, un profondo respiro con naso e bocca riempiva di freschezza i polmoni e di energia tutto il corpo. Il forziere dei ricordi veniva scoperto da quelle essenze ritrovate, acutizzate dall’umidità avvolgente. Il profumo di conifere e di sottobosco mi riportava a immagini di esperienze passate; fotogrammi di emozioni e di ritratti impressi nel tempo. Quante ne ho vissute di sensazioni come queste, esclamavo sorridendo, e in silenzio, dentro di me.

La traccia di sentiero svaniva dalla vista, nella foschia, dopo poche decine di metri: ero nel cuore dello spesso strato di nubi che mi separava dalla luce. Il flebile suono della pioggia, raggiunte quote più elevate, aveva lasciato spazio alla quiete del bosco alpino accecato dalla nebbia. È sempre stata mia usanza fermarmi, in quegli istanti, e registrare coi miei sensi la bellezza di una – finalmente – tangibile e più affine realtà. La foresta sembrava addormentata, avvolta da quella trapunta di nubi dense e fascianti. Era sommersa da un silenzio diverso. L’ho sempre percepito differente dagli altri. Non è la quiete della notte vissuta sulla cima di una montagna; non è il silenzio della solitudine glaciale, e nemmeno quello dei deserti o degli altri grandi spazi. Il silenzio della nebbia è un ascolto reciproco. La massima espressione dell’attenzione. Il silenzio della resa nell’attesa della luce. Qualche impaziente picchio decideva di mettersi al lavoro, spezzando la partecipazione al silenzio di una comunità di abitanti dedita, invece, all’ascolto. Ma ogni essere vivente, mentre serpeggiavo lungo la salita fra sagome di faggi e abeti che scomparivano man mano, lo immaginavo assorto in un’immobile allerta sensoriale, in attesa di ritornare a vedere nuovi colori oltre i grigi della foschia.

Nel corso dei periodi di inversione termica, sebbene i bollettini meteorologici prevedano una quota oltre la quale l’atmosfera diventa secca, con le nuvole che lasciano spazio alla nitidezza e al tepore dell’infinito, non è sempre omogenea l’altitudine locale in cui questo effetto si manifesta. Perciò, lungo il mio transito del compatto strato di nuvole, continuavo ad alzare lo sguardo al cielo, con la speranza di notare una variazione di luminosità: un chiaro indizio di emersione. La speranza, tuttavia, era più prorompente dell’oggettività di un percorso di salita che si rivelava, invece, lungo e incerto. Col desiderio di connessione con l’infinito più forte di una fatica che non offriva la minima tregua. Osservandomi attorno, i dettagli di un paesaggio cristallizzato al confine del visibile mi colpivano costantemente. Minuscole goccioline di condensa addobbavano gli aghi acuminati degli abeti rossi, così come ogni filo d’erba delle sempre più frequenti praterie d’alta quota. Le aperture delle tane delle marmotte, deserte e spettrali, invitavano a immaginare gruppi di animali riparati nelle stanze più interne delle loro città sotterranee, gli uni vicini agli altri, ormai piombati nel lungo sonno invernale. L’ambiente umido e privo di irraggiamento solare diretto, infine, era l’occasione perfetta per assistere alle lente traversate diurne delle salamandre nere, e di quelle pezzate. I loro grandi occhi scuri a specchio, lucidi, riflettevano la mia fantasia nell’immaginare i pensieri di questi animali nei loro pellegrinaggi montani. I loro viaggi erano vissuti in una dimensione temporale verosimilmente alterata rispetto alla mia.

Proprio la percezione del tempo, sì, mi ha sempre affascinato. Rialzatomi dal saluto alle salamandre, osservavo lo scorrere del tempo della vegetazione: l‘esistenza ciclica degli alberi. I più giovani e quelli più anziani. Questi ultimi avevano senza dubbio vissuto più stagioni di quante io ne potessi immaginare. Chissà quante generazioni di esseri umani avevano sostato, o erano transitate sotto le loro fronde, nel passato? Quanti mutamenti avevano percepito succedersi nell’ambiente limitrofo? Nel corso dei decenni, o dei secoli, un numero imprecisato di specie animali aveva interagito con essi, in un rapporto di vicendevole equilibrio. Fra queste, vi erano indubbiamente le formiche rufe, le inesauribili lavoratrici della stagione estiva. In attesa dell’inverno, le formiche avevano già abbandonato la superficie delle loro inespugnabili roccaforti per rifugiarsi nei più profondi meandri della polis, in un’alternanza annuale di attività e vita latente dettata solamente dalla necessità di sopravvivenza. Mi riconoscevo in quelle dinamiche temporali soggettive di ciascun essere vivente che incontravo, consapevole di poterne comprendere l’esclusiva unicità e necessità, inclusa la mia di essere umano. Proprio quell’innata dinamica naturale, la nostra, spesso avvelenata e dimenticata, laggiù, nel monocromatico mondo offuscato e bidimensionale.

Dopo diversi chilometri, centinaia di metri di dislivello di salita e un tempo indistinto trascorso all’interno delle nubi, il paesaggio era cambiato. La nebbia cominciava ad alleggerirsi; un chiarore diffuso proveniva dall’alto. Tutt’intorno, a questo punto, il bosco aveva iniziato a passare il testimone a prati pensili, pini mughi e rocce plasmate dalla mano dei millenni. A metà pomeriggio, quando il Sole avanzava inesorabile verso l’orizzonte occidentale, il sollievo della meta alle porte era ormai pervasivo. La transizione è rapida in queste condizioni: da un istante all’altro si emerge dal mare di nubi, con poco preavviso. Quasi fosse, il fremito della sorpresa, il dono della conquista della luce.

Così era accaduto anche allora. Le sensazioni di quei momenti sono tutt’ora vive, e ciò accade per tutti i fotogrammi di momenti simili vissuti. I sensi sono la scintilla che accende le emozioni; le emozioni sono la fiamma che forgia i ricordi: l’energia che genera la passione. Un’arcana relazione di elementi dell’umano che ci proietta irrefrenabilmente verso la massima espressione del presente che viviamo. Tempo, e realtà, che ci appartiene.

Approcciarsi alla lucentezza del panorama significava connettersi all’armonia. Il cielo vivido, azzurro, tratteggiato da irregolari velature; il tepore della radiazione solare sul viso e quello proveniente dai colori del paesaggio autunnale ammantato dal tramonto imminente. L’erba, alle quote più elevate, in quel periodo dell’anno aveva già indossato le tonalità calde che anticipavano l’arrivo della neve. I larici dorati emergevano da onde candide e senza voce, fluttuanti, che ora, da quassù, apparivano diverse dalla prospettiva del mondo sotterraneo, mostrando il loro lato più seducente. Il suono della brezza, ora secca e tiepida, era una manna dal cielo.

Raggiungere la cima, per poi installare il bivacco, avrebbe voluto dire affacciarsi sulla fantasia. Che cosa avrei trovato dall’altra parte? Come sarebbe apparso quel nuovo mondo dalla sommità di una montagna in fuga da un oceano soffocante di nubi? Non era la prima volta che vivevo quella trepidante attesa; un adrenalinico desiderio di scoperta e di pienezza. Eppure, sebbene queste circostanze le avessi già vissute più volte, la genesi di quelle percezioni era totalmente rinnovata. Un’origine proveniente dalla passione alimentata dall’immaginazione, il crogiolo dove fondono attrazione nei confronti dell’ignoto e tensione verso la libertà della costante espressione soggettiva.

Qui, al limite delle ombre delle cime più alte, le settimane che precedevano l’arrivo dell’inverno alpino erano scandite dai preparativi dei tenaci residenti dell’habitat montano. Complice l’atmosfera calda del tramonto autunnale, la quiete che si avvertiva in quei momenti annunciava il cambiamento. L’assenza di frenesia della piccola avifauna d’alta quota, e la scomparsa della vivacità delle marmotte, trasmettevano un vuoto sensoriale intenso – già provato in passato – sintomo del fluire di un nuovo ciclo della natura. La vegetazione, coraggiosamente ancorata ai pendii più erti, aveva rallentato la propria vitalità regalando alla visione umana le sue sfumature più eleganti. La lentezza, infine, si era impadronita anche dei sovrani dell’adattamento alpino, gli stambecchi. Nonostante i poteri assoluti di regnanti delle alte quote in loro possesso, acquisiti in millenni di evoluzione, anche questa specie doveva abdicare temporaneamente al trono dinanzi al dominio incombente dell’inverno.

Negli ultimi istanti d’ombra che mi separavano dalla libertà della luce riflettevo sul significato di connessione. Non era una parola, una traduzione letterale, o figurativa, di un pensiero razionale. Mi confrontavo con un’espressione dell’essenza umana, innata e istintiva, primordiale, di origine irrazionale e puramente animale. Riconoscevo un legame totale con tutti gli elementi. Non esisteva un ordine di importanza, di bellezza o di attrazione nei confronti dell’uno, o dell’altro. Si trattava di una fusione col tutto. La consapevolezza umana mi comunicava ciò che, in realtà, era frutto di un istintivo essere parte di quell’insieme di fenomeni ed elementi. Era una grande rete tendente all’infinito, dove ogni mio movimento, respiro, sussurro o comportamento entrava in contatto con l’universo circostante, creando una consonanza. Dove ogni parte di materia esistente, ingrediente vitale o inanimato del pianeta, entrava direttamente, talvolta in modo dolce, altre volte con fare imperioso, in relazione con me attraverso la totalità dei miei sensi. Si manifestava una dimensione di comprensione, dove non percepivo il tempo, il giusto o sbagliato, il bene e il male, ma solo equilibrio. Era l’esistenza; era la natura; era l’essere presente – nel – presente.

La luce, finalmente; la tridimensionalità. Approcciarsi alla sottile cresta che si affacciava sull’orizzonte significava spalancare le porte al desiderio di libertà di espressione soggettiva. L’apice dell’essenza inalterata; la rottura della struttura vincolante. Sì, riuscivo davvero a toccare quello splendore, invisibile nel mondo incolore della frenesia unidirezionale. Si diffondeva ovunque. Il Sole era rosso e si poteva osservare direttamente; si trovava a pochi passi dalla linea che divideva terra e cielo. Potevo godermi quegli ultimi istanti di ciclica, ma sempre ipnotica, meraviglia. Sotto di esso si estendeva, verso l’apparente infinito, la trapunta di nuvole che ingabbiava la Terra. Sull’esile piattaforma di roccia, terra e zolle d’erba che avevo scelto come platea, tutto aveva assunto tonalità roventi. Le cime emergenti alle mie spalle apparivano come fiamme. Quelle di fronte, in prima fila e ancor più privilegiate dinanzi al palcoscenico dell’incanto, si mostravano in silhouette, controluce, esibendo le loro forme affascinanti e riconoscibili. Eccoli, i colori, la geometria, la potenza della quiete, la scomparsa dell’impazienza. Vivevo semplicemente lo scorrere della natura. Mentre l’ultimo tenue tepore alleviava la sensazione di freddo, che in alta quota e dopo il tramonto, ad autunno inoltrato, non esita a irrompere, installavo la mia tenda per trascorrere la notte.

Una serie di raffiche di vento più decise, in precedenza solo lievi, annunciava il congedo serale del Sole. La mancanza di radiazione solare aveva creato scompiglio nell’atmosfera. Anche l’oceano di nubi aveva subito gli effetti della sua assenza, con la marea silenziosa, ora più scura e color magenta, che arretrava, abbassandosi di quota. In lontananza risaltavano nell’ombra fredda i ghiacciai morenti di montagne remote. Raggi crepuscolari, provenienti da destinazioni incerte, invisibili e immaginarie, attraversavano tutta la volta celeste, unendo il giorno passato con quello futuro. Era iniziata l’ora blu, il prologo della notte, e con essa la mia pacifica contemplazione della bellezza. Un tributo alla connessione. Sedermi sul ciglio del vuoto, al di sopra di quel mare di nubi dense e a perdita d’occhio, mi aveva riportato alle sensazioni del mattino, e il confronto sorgeva inevitabile, con veemenza. Mi trovavo, in quel momento, al centro dell’equilibrio che desideravo, nel percettibile ma incalcolabile scorrere della natura, protagonista del mio presente, artigiano della mia istintiva vocazione espressiva. Potevo apprezzare, tutt’intorno, le trame di un paesaggio nitido e completo, che riuscivo a toccare, osservare nella sua totalità, ascoltare. Potevo assaggiarne i sapori e avvertirne le inesauribili essenze. Arcipelaghi di vette emergevano davanti ai miei occhi dagli abissi dell’inconsistenza. Ciascuna isola mi riportava ad avventure passate, a prospettive diverse dello stesso paesaggio: l’esplorazione della tridimensionalità.

Era lo stesso pianeta, ma un mondo differente. Proprio allora ho cominciato a guardare verso il basso. Sotto i miei piedi, oscillanti nel vuoto, danzava lentamente la sommità delle nuvole. Al di sotto di quello strato spesso e apparentemente impermeabile, nulla era cambiato. Non era immaginazione questa volta, bensì consapevolezza. La pioggia non aveva mai smesso di bagnare un sopravvivere scandito e sottomesso dal tempo definito e artificiale – sfuggente – dell’umanità. L’arrivo della notte, immediato, là sotto nella nebbia, aveva scacciato l’unico barlume di visione possibile, quella bidimensionale, incolore e priva di prospettiva. Uno scenario offuscato e convulso, che il sopraggiungere delle tenebre illudeva soltanto momentaneamente della sua eclisse. Quando sarebbero mutate, in modo risolutivo, quelle condizioni meteorologiche avverse? Mi chiedevo.

L’immersione in questi pensieri mi aveva fatto dimenticare il freddo, ormai pungente, e nel frattempo, all’orizzonte occidentale, in cielo era rimasta solo una tenue sfumatura di blu. La notte nera aveva vestito ogni superficie, senza tuttavia impedire di distinguere forme e profili di un paesaggio ancor più silente. Anche il vento era calato. Potevo decidere quale dei miei sensi attivare o disattivare, se utilizzarli in simbiosi, oppure singolarmente, concentrando la mia attenzione su specifici elementi del tutto. Ero libero di comporre il presente: una melodia di emozioni e sensazioni. La sinfonia della realtà. Il firmamento aveva già annunciato l’inizio del suo illimitato spettacolo. L’atmosfera asciutta aveva spalancato il sipario sull’universo, proiettandomi con la vista e l’immaginazione in un limpido labirinto di stelle e mondi lontani.

Sotto il riverbero dell’infinito mi preparavo a trascorrere la serata prima, e la notte poi. Proveniente da lontano, molto più in basso, l’eco dello scrocchio ripetuto di un capriolo – un verso che ricorda l’abbaio di un cane – mi confortava: la solitudine era soltanto un’apparenza. Se la percezione del capriolo era lontana e avvolta nel mistero, così non era per gli stambecchi. Riconoscevo subito la loro vicina presenza: i passi sulle rocce, e il peculiare suono sordo emesso come segnale di avvertimento, erano inequivocabili. Potevo identificare chiaramente i loro profili nel buio mentre circondavano di curiosità la mia postazione. La loro socialità mi ha sempre regalato serenità in questi luoghi: un reciproco rapporto di fiducia, dove ciascuno sapeva rispettare i propri spazi, realizzando in tal modo un’equilibrata condivisione di esigenze e libertà.

Il tempo era scandito dall’orologio della volta celeste: le stelle scambiavano la propria posizione con nuovi astri; altri svanivano all’orizzonte, e nuove costellazioni raccontavano capitoli di epiche leggende di ere lontane. Il mio sguardo era immobile, pietrificato, attratto dal magnetismo di quello smisurato cielo notturno. Ogni tanto la mente tornava al mondo laggiù, sempre immerso nelle nubi. Nessun bagliore artificiale, nessun rumore, nessun movimento emergeva dalla superficie grigia di quell’oceano. Ma le domande di qualche ora prima si erano dissolte, quasi avessi compiuto il mio distacco da quel luogo ancora così oppresso. Anche se ci fossi tornato, nulla mi avrebbe più impedito di conservare la consapevolezza del mondo sopra le nuvole. Avrei potuto continuare a dirigere il mio lungometraggio a colori. Proprio in quegli istanti, prima di entrare nella tenda e addormentarmi, pervaso dalla più pura e profonda sensazione di armonia che potessi provare, avevo finalmente trovato il significato del mio istintivo e travolgente bisogno di connessione con la natura, con il tutto. La potevo chiamare semplicemente essere; la mia libertà di vivere.